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Documentario

Fuocoammare

Un ragazzino, Samuele Pucillo, taglia da un pino un rametto biforcuto per ricavarne una fionda. Con il suo amico Mattias Cucina si diverte poi a intagliare occhi e bocca su alcune pale di fico d’India e a tirar loro pietre con la fionda, come contro un esercito nemico. Questo succede sull’isola di Lampedusa, mentre gli uomini dell’ufficio circondariale della Marina, ricevuta via radio una richiesta di soccorso, attivano le ricerche in mare con unità navali ed elicotteri della guardia costiera. Intanto la vita sull’isola prosegue. Una casalinga, Maria Signorello, mentre prepara il pranzo, ascolta la radio locale condotta da Pippo Fragapane che manda in onda musica e canzoni a richiesta e dà notizie su avvistamenti e salvataggi in mare.

Pietro Bartolo
Profughi e migranti provenienti dal Nordafrica su barconi stracarichi vengono imbarcati sulle navi della Guardia costiera e poi, trasbordati su lance e motovedette, sono condotti a terra. Qui trovano Pietro Bartolo, il medico che dirige il poliambulatorio di Lampedusa e che da anni compie la prima visita ad ogni migrante che sbarca nell’isola. Vengono quindi trasferiti in autobus al centro di accoglienza, perquisiti e fotografati. Samuele parla con Francesco Mannino, un parente pescatore che gli racconta di quando faceva il marinaio sulle navi mercantili vivendo sempre a bordo per sei, sette mesi, tra cielo e mare. Un sub, Francesco Paterna, si immerge a pesca di ricci nonostante il mare mosso.

A casa, durante un temporale, Samuele studia e poi ascolta la nonna, Maria Costa, che gli racconta di quando, in tempo di guerra, di notte passavano le navi militari lanciando i razzi luminosi in aria e il mare diventava rosso, sembrava ci fosse il fuoco a mare. Maria Signorello chiama la radio per dedicare al figlio pescatore Fuocoammare, un allegro swing, con l’augurio che il brutto tempo finisca presto e si possa uscire in barca a lavorare. Il brano va in onda. Intanto, nel centro d’accoglienza un gruppo di profughi intona un canto accorato accompagnato dal racconto delle loro peripezie:

«Non potevamo restare in Nigeria, molti morivano, c’erano i bombardamenti. Siamo scappati nel deserto, nel Sahara molti sono morti, sono stati uccisi, stuprati. Non potevamo restare. Siamo scappati in Libia, ma in Libia c’era l’ISIS e non potevamo rimanere.
Abbiamo pianto in ginocchio: -Cosa faremo? Le montagne non ci nascondevano, la gente non ci nascondeva, siamo scappati verso il mare. Nel viaggio in mare sono morti in tanti. Si sono persi in mare. La barca aveva novanta passeggeri. Solo trenta sono stati salvati, gli altri sono morti.
Oggi siamo vivi. Il mare non è un luogo da oltrepassare. Il mare non è una strada. Ma oggi siamo vivi. Nella vita è rischioso non rischiare, perché la vita stessa è un rischio… Siamo andati in mare e non siamo morti.»
Il medico, mostrando la foto di un barcone con ottocentosessanta persone, racconta di quelli che non ce l’hanno fatta. Soprattutto di quelli che per giorni navigano sottocoperta, stanchi, affamati, disidratati, fradici e ustionati dal carburante. Commosso e sconvolto, il dottore racconta di quanti ne ha potuti curare e di quanti, invece, ne ha dovuti ispezionare i cadaveri recuperati in mare, tra cui tante donne e bambini, facendo molta fatica ad abituarsi. Così, mentre Samuele cresce e affronta le sue difficoltà per diventare marinaio, infatti a Lampedusa tutti lo sono, in mare prosegue la tragedia dei migranti e l’impegno dei soccorritori.

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